Aspetto con pazienza (frammista a momenti deliranti in cui mi produco in tutte le imprecazioni possibili) e, finalmente, pago. Mi fermo ai bagni ed entro e, non appena scatta la chiave nella serratura, lancio qui e là, a caso, gli oggetti: il giubbetto appeso al porta carta, il cellulare sulla specchiera, la borsa DENTRO il lavandino, e mi calo i pantaloni giusto un istante prima che…
Tiro un sospiro di sollievo, mentre rimango in equilibrio precario (non sfiorerei l’asse del w.c. con le cosce nemmeno morta) e rovisto in cerca delle salviette che porto perennemente in tasca. In lontananza, un lieve scroscio d’acqua che percepisco a tratti, sommesso, quasi soffocato, e a cui non faccio troppo caso. Mi asciugo, mi sistemo, e lo scroscio è ancora là, più corposo e persistente.
Mi guardo intorno, quasi preoccupata: le altre volte, quel rumore non c’era, e Dio sa se questi bagni li ho frequentati abbastanza per saperlo. La verità mi colpisce come un flash: mi precipito sul lavabo, gridando “Nooooo!” e, al contempo, sollevando la borsa di scatto. Inutilmente. Era finita proprio sotto il rubinetto che, in “‘sto catso di posto”, funziona a sensori e si è azionato immediatamente: è piena fino all’orlo, e le mie cose ci galleggiano dentro.
Comincio una recitazione verbalizzata del Rosario che Germano Mosconi spostati, e rovescio una sorprendente quantità di litri d’acqua nel lavabo. Con perizia, ripesco tutto, tentando di “sgrullare” (esatto, solo sgrullare potevo) ogni oggetto alla bell’e meglio: soldi, il portafogli di Anneke, regalo, desideratissimo, del mio compagno per Natale, i miei braccialetti, il burro cacao, le penne e gli accendini…
Rimetto tutto in borsa ed esco così, sgocciolando a ogni passo e lasciandomi dietro una scia che, forse, se mi fossi fatta la pipì addosso, non ci sarebbe. Esco nel parcheggio profferendo una tale serie di bestemmioni creativi che persino un veneto si sarebbe levato il cappello.
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