E difatti così è successo: nel corso di questo tempo faticoso ad ogni occasione riemergono brandelli incoerenti di un passato lontanissimo, per lo più sconosciuto. Ho sempre covato il desiderio che mi riconoscesse, che mi chiamasse per nome, lo fa quando non ci sono ma in mia presenza è come se avesse davanti un perfetto estraneo. E proprio recentemente mentre, come sempre, la stavo ascoltando accondiscendente nelle sue affabulazioni inestricabili a un certo punto si è fatta silenziosa, le si sono improvvisamente illuminati gli occhi verdissimi che ormai da tempo sembravano spenti e con uno sguardo furbo e sorridente da bimbetta impenitente, come se l’avesse fatta grossa, mi ha guardato dritto come mai aveva più fatto dalla malattia. A quel punto ho sperato che mi avesse riconosciuto e che stesse per dire il mio nome e così sono rimasto in trepidante attesa. Invece lei, piena di felicità e con un filo di voce ha esclamato, in dialetto: “ Max, Max, hai visto?…” senza aggiungere altro, e subito dopo lo sguardo le si è spento. Ho impiegato qualche istante a rammentare ma poi ho ricordato e quello che ho fatto è stato solo di abbracciarla forte, di un abbraccio che non poteva essere più ricambiato, e silenziosamente ho pensato “Sì, certo, Silvia, non ha sparato, hai ragione”. Sono certo che grazie a quell’insondabile mistero che è la mente umana per un istante si è ritrovata in piedi, con le sue gambettine ora di nuovo malferme come allora, davanti a quell’aereo da guerra assieme a suo cugino, in quella storia che con dovizia di particolari per tante volte da piccolo avevo ascoltato, una storia che a un certo punto della vita era stata completamente rimossa dalla memoria di tutti e in famiglia non se ne era più parlato per decenni.

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Claudio Michelizza

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