È una storia vera ma lunghissima, non so chi potrà avere mai la pazienza di leggerla. Mah, non so, lascio la decisione agli amministratori se pubblicarla o meno. In ogni caso grazie.
In un pomeriggio ancora assolato dell’autunno del ’44 una bambina di dodici anni dal corpo smilzo e ancora acerbo con indosso il suo bel vestitino azzurro dal colletto bianco fatto dalla mamma di cui andava così tanto fiera, e con i capelli raccolti in alto da un nastro come era di moda a quei tempi, si stava incamminando con le sue gambettine magre magre in compagnia dei cuginetti Igea e Max, tutti coetanei, lungo i bordi di un campo di un piccolo paese di campagna di una Emilia Romagna costantemente tormentata dalla guerra a causa del fronte che la percorreva per tutta la lunghezza sulla linea Gotica. Tutti e tre avevano avuto il compito dalla mamma della bambina del racconto di portare alcune bottiglie di acqua e di vino rinfrescato agli uomini che stavano lavorando nei campi: il peso più grosso lo portava Max con le sue due ceste piene di bottiglioni di vino mentre le due bambine ne portavano una più leggera a testa, ciascuna con due sole bottiglie d’acqua. Camminavano sul limitare dei campi come erano stati istruiti a dovere dai genitori: dovevano sempre stare appresso ai fossi che delimitavano gli appezzamenti di terra che l’ingegno umano, visti i tempi, aveva trasformato in trincee artigianali, un po’ più fondi di come erano stati prima della guerra erano utili a nascondersi quando i ricognitori alleati arrivavano mitragliando a terra a casaccio. La sfortuna aveva voluto che proprio al limitare del paese era stato installato un importante punto logistico aereo germanico e non mancavano mai le incursioni degli alleati con l’obiettivo, inspiegabilmente sempre vano, di renderlo inoffensivo.
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